Parco IRIS: respinto il progetto di lottizzazione!

La lunga battaglia del Comitato IRIS e delle associazioni ambientaliste per la salvaguardia delle aree verdi comprese tra via Canestrini e via Forcellini ha registrato un primo significativo successo. L’assessore all’urbanistica Ivo Rossi proporrà al Consiglio Comunale di respingere con una apposita delibera il progetto di lottizzazione presentato dai privati, in considerazione soprattutto del fatto che la soluzione proposta non rispecchia la volontà dell’amministrazione di utilizzare le aree cedute dai privati (richieste dalle norme urbanistiche) per un reale ampliamento del parco IRIS: la localizzazione della prevista nuova edificazione privata prevalentemente lungo via Canestrini e la distribuzione degli spazi verdi all’interno dei fronti edificati ne limiterebbe infatti la possibilità di una effettiva fruizione pubblica.
Nel condividere la proposta dell’assessore Rossi la Commissione Urbanistica ha comunque chiesto di poter esaminare e discutere in una prossima seduta le motivazioni che sostanzieranno la Delibera del Consiglio Comunale, fondamentali per evitare un possibile ricorso al TAR dei proprietari privati ed essenziali per evitare che un nuovo progetto che preveda una semplice ridistribuzione delle cubature edilizie debba in fase successiva essere automaticamente accettato dal Comune.
A tal fine, come in più interventi richiesto, noi riteniamo che nella delibera con cui si nega l’approvazione del progetto vengano inserite anche le seguenti motivazioni:
Tutta l’area è soggetta a rischio idraulico. Va quindi richiamato quanto indicato nei pareri espressi dai Consorzi di bonifica e dalla stessa Regione Veneto in relazione alla compatibilità idraulica ed alle norme del PATI, ovvero che non è sufficiente attestare la cosiddetta “invarianza idraulica” dei progetti di nuova lottizzazione, ma che preliminarmente ad ogni nuova autorizzazione di espansione urbanistica devono essere effettuati gli interventi per la messa in sicurezza di tutto il bacino scolante (interventi che nel caso specifico sono stati solo parzialmente avviati). E va ricordato che, sempre nei pareri ricordati, si suggerisce per le aree a rischio idraulico l’utilizzo dei crediti edilizi per la dislocazione delle volumetrie programmate in altri contesti urbani.
L’articolo 13 della legge urbanistica regionale pone un preciso limite al consumo di suolo agricolo: limite che deve essere quantificato nel Piano di Assetto del Territorio (PAT). Con propria deliberazione del novembre 2008 inoltre la Regione Veneto ha precisato che nel computo del suolo agricolo devono essere considerate tutte le aree aventi caratteristiche agricole (pur se temporaneamente abbandonate) indipendentemente dal fatto che il PRG previgente le destinasse ad altro uso. A conferma di questa prescrizione sempre l’Atto di Indirizzo della Regione Veneto sottolinea che “… è possibile la ricollocazione, all’interno del territorio comunale, delle aree interessate da precedenti previsioni di piano non attuate, nonché di quelle che, ancorché adottate, sono incompatibili con il PAT”. Le aree interessate dal progetto Iris rientrano in questa fattispecie. Il Comune è quindi legittimato a proporre un trasferimento delle cubature già previste dal PRG in altro ambito urbano, tanto più in considerazione del fatto che nel PAT adottato – come ufficialmente riconosciuto dalla stessa Amministrazione – vi è stato un evidente errore nel calcolo del limite della Superficie agricola utilizzata (SAU) trasformabile. In base ai parametri regionali questa infatti non può essere superiore a 181.142 mq (anziché ai 667.944 mq erroneamente indicati nel PAT), un valore che dovrebbe essere già stato abbondantemente superato con i piani attuativi del Basso Isonzo e con la recente Variante di piano relativa a Mortise.

ottobre 2011

Auditorium e riqualificazione urbana

In più occasioni nel passato abbiamo valutato criticamente il progetto del nuovo Auditorium previsto in piazzale Boschetti. Per ragioni localizzative in primo luogo. Questo spazio (come quello limitrofo dell’ex Cledca) nei piani regolatori di Piccinato era infatti destinato a verde pubblico ed era stato immaginato come anello fondamentale del costituendo Parco delle Mura cinquecentesche e della rete ecologica urbana.
Ma anche nel merito della qualità architettonica dell’intervento il giudizio non poteva che essere negativo. Va infatti ricordato che la commissione esaminatrice decretò vincitore del concorso indetto dall’Amministrazione comunale non il progetto di Klaus Kada, bensì quello dell’architetto Alberto Cecchetto, decisamente di minor impatto ambientale. Solo per un cavillo formale, sollevato da Kada, il progetto di Cecchetto venne invalidato dal TAR Veneto: una sentenza discutibile, contro la quale il Comune – se ve ne fosse stata la volontà – avrebbe potuto ricorrere con buone probabilità di successo. L’Amministrazione preferì invece (per evitare un allungamento dei tempi?) aggiudicare l’incarico del progetto definitivo al secondo classificato, dimostrandosi con ciò del tutto indifferente nei confronti della qualità progettuale. Eppure non è difficile cogliere l’abissale diversità di approccio esistente tra i due progetti. Se l’aspetto caratterizzante lo studio di Cecchetto era costituito da un sostanziale rispetto dell’identità dei luoghi e dalla ricerca di una relazione dialettica con l’immagine e la morfologia della città antica, ciò che colpisce nel progetto di Kada è la violenta estraneità alla storia ed alla forma del contesto urbano. Un oggetto architettonico autoreferenziale, che non dialoga con lo spazio circostante (fiume, cinta bastionata cinquecentesca, cappella degli Scrovegni)  e che non ha la forza di rinnovarne l’immagine senza stravolgerne la natura.
Il nostro giudizio negativo sul progetto Kada non può che essere rafforzato dalla recente pubblicazione dello studio della Sinloc (Fondazione Cariparo), da cui risulta che per gestire l’Auditorium per 150-200 giorni l’anno saranno necessari 7 milioni di euro. Una cifra insostenibile per il bilancio comunale.
Che conclusioni trarne? Noi rimaniamo convinti che l’idea di realizzare una “Casa della musica” nella nostra città sia un’idea giusta. L’insostenibilità non solo ambientale ma anche economica del progetto attuale deriva principalmente dalla sua errata localizzazione, in un sito che è troppo prossimo al centro storico e che risulta di dimensioni troppo ristrette per consentirne futuri ampliamenti ed integrazioni con altre strutture e funzioni in grado di favorire sinergie, pieno utilizzo e riduzione dei costi di gestione.
Si sta discutendo in questi giorni della realizzazione di un nuovo Centro Congressi all’interno della Fiera. In realtà ciò che è in discussione è il futuro dell’Ente Fiera nel suo complesso, un ente che – anche a causa dell’oggettiva carenza di spazi ed attrezzature all’altezza dei tempi – soffre oggi della sempre più agguerrita concorrenza delle Fiere sorte in altre realtà del Triveneto (mortale sarebbe da questo punto di vista la realizzazione di Veneto City) e che quindi dovrà quanto prima ridefinire la propria missione.
Nel PAT di Padova, come a più voci richiesto negli incontri di Agenda 21, tutta l’area che gravita attorno alla Fiera e agli istituti universitari a nord del Piovego è stata indicata come potenziale nuovo Distretto per la cultura e la creatività digitale, caratterizzato non solo da idonei spazi espositivi e di spettacolo, ma anche da una presenza diffusa di laboratori, luoghi di produzione culturale, di sperimentazione ed innovazione scientifica e tecnologica nel campo in particolare delle arti visive, della musica, del design, dell’informatica e delle telematica. Un quartiere vivibile e vissuto nell’arco di tutta la giornata, in grado di attrarre i giovani e di offrire loro nuove opportunità d’incontro, di approfondimento culturale e di lavoro. Certo, come afferma il maestro Scimone, nelle condizioni attuali un Auditorium collocato “dietro la Fiera” rischierebbe di non godere di una adeguata visibilità. Ma se ci si pone nella prospettiva sopra indicata, la sua realizzazione, in stretta connessione con il previsto Centro Congressi, potrebbe invece realisticamente costituire un primo concreto passo per una radicale riqualificazione e rigenerazione di un quartiere strategico per tutto l’organismo urbano.
ottobre 2011

Archeologia industriale e piano paesaggistico

E’ stata pubblicata nelle settimane scorse una interessante “Guida al patrimonio archeologico-industriale nel padovano”: un testo di Lino Scalco che, oltre a tratteggiare una documentata storia delle diverse fasi dello sviluppo industriale di Padova dalla metà dell’Ottocento sino agli anni Settanta del secolo scorso, contiene una quanto mai utile schedatura di tutti i principali stabilimenti ed insediamenti industriali della nostra provincia.  109 schede di catalogazione di luoghi e spazi di lavoro, suddivisi per aree tematiche, che in realtà raccontano la storia di oltre 350 imprese. Un’opera che – come scrive l’autore – si pone l’obiettivo di «sensibilizzare le amministrazioni locali, gli ordini professionali, le categorie economiche e i cittadini affinché venga evitato l’abbandono sconsiderato di questi siti, conservando ciò che veramente merita di essere salvaguardato».
La lettura di questo testo, ricco di preziosissime informazioni, non può che farci riflettere sul ritardo culturale che caratterizza la gestione del territorio e del patrimonio storico nella nostra Regione. Innumerevoli singoli edifici di alto valore testimoniale e di indubbio pregio architettonico sono stati demoliti o abbandonati al degrado. Interi insediamenti industriali sono stati completamente cancellati dal diluvio edificatorio degli ultimi decenni, senza lasciare traccia alcuna (a Padova tutta l’area compresa tra il Piovego e la ferrovia Padova-Venezia). Salvo casi rarissimi nessuna norma di salvaguardia è stata prevista negli strumenti della pianificazione urbanistica e territoriale.
Nel PTRC della Regione Veneto del 2009 si accenna all’importanza dei luoghi dell’archeologia industriale quali “sistemi culturali territoriali da tutelare”, ma poi nell’elenco dei beni architettonici del Novecento allegato al piano di detti luoghi ed edifici di fatto ci si dimentica quasi completamente (uniche eccezioni nella provincia di Padova lo stabilimento Itala Pilsen in zona industriale e la fabbrica Torrefazione Vescovi di via Vicenza). Un elenco che la Regione afferma essere provvisorio ed implementabile attraverso le segnalazioni di enti locali e cittadini… segnalazioni che, come associazioni culturali e ambientaliste, dobbiamo quanto prima trasmettere alla Regione avvalendoci proprio dell’ampia documentazione contenuta nelle schede predisposte da Lino Scalco.
Ma ancor più grave ci sembra il fatto che nell’Atlante degli ambiti paesaggistici costituente parte integrante del PTRC e nei documenti sin qui elaborati per il Piano Paesaggistico regionale (che avrebbe dovuto precedere e non seguire l’elaborazione del PTRC) di archeologia industriale di fatto non si faccia cenno. Eppure il valore ed il fascino dell’archeologia industriale, al di là della stessa qualità architettonica e tecnologica dei manufatti, risiede proprio nelle stretto legame un tempo esistente tra stabilimenti produttivi, ambiente e territorio. Oggi la localizzazione di una attività industriale è per molti aspetti svincolata dalle caratteristiche del territorio. Negli insediamenti del passato preponderante era invece quasi sempre la disponibilità e la relativa vicinanza di risorse materiali ed energetiche. Basti pensare, ad esempio, all’importanza dei corsi d’acqua e dei salti idraulici (il caso più emblematico è forse quello del rapporto esistente a Battaglia Terme tra la conca idraulica, le Officine Meccaniche Galileo e la Società Veneta di Macinazione), delle reti di trasporto fluviali e ferroviarie, delle attività agricole connesse (Zuccherifici di Pontelongo, Montagnana ed Este, Molini di macinazione, Filande, Pastifici, …). delle caratteristiche delle rocce e dei terreni (cave di argilla e calcare, fornaci, …). Filiere produttive e trame insediative che sono divenute elementi costitutivi del paesaggio storico, arrivando a configurare in alcuni casi (si pensi in particolare a Piazzola sul Brenta) originali modelli di organizzazione sociale e territoriale indissolubilmente connessi alla memoria storica ed alla identità dei luoghi.
La Convenzione Europea del Paesaggio sottolinea la centralità – nella costruzione dei piani paesaggistici – dell’aspetto percettivo da parte delle popolazioni residenti. Sono le aspirazioni degli abitanti che ne possono consentire la riqualificazione, la salvaguardia e la valorizzazione. Ma la costruzione di una visione condivisa e di un progetto partecipato di salvaguardia e trasformazione passano necessariamente attraverso la conoscenza della storia del bene da salvaguardare, attraverso l’individuazione dei suoi aspetti più significativi e caratteristici e delle connessioni esistenti tra aspetti fisici e processi sociali, economici ed ambientali. L’elaborazione di un piano paesaggistico è oggi necessariamente anche un processo sociale, un processo di sensibilizzazione ed approfondimento culturale che deve vedere la partecipazione diretta di cittadini ed associazioni: un processo a cui il saggio di Lino Scalco offre oggi un significativo contributo.
settembre 2011

Prosegue incontrastato il consumo di suolo agricolo

A seguito di una nostra segnalazione, il Settore Pianificazione Urbanistica con nota del 28.2.2011 ammetteva la presenza di un vistoso errore nel dimensionamento del Piano di Assetto Territoriale (PAT) adottato il 7 aprile 2008 del Consiglio Comunale di Padova ed ammetteva di non aver seguito le prescrizioni della regione (Dgr 3650 del 25 novembre 2007) nella classificazione delle aree agricole e nella determinazione del limite massimo imposto dalla legge alla trasformabilità delle Superfici Agricole Utilizzate (SAU) in zone con destinazioni diverse.
Tale ammissione ci ha indotti a porre al Comune alcuni quesiti di fondo relativi ai criteri adottati nel censimento delle aree agricole in relazione soprattutto al fatto che, sulla base delle disposizioni regionali, il limite imposto alla trasformabilità delle aree agricole dovrebbe riguardare anche le aree che, pur diversamente destinate dal previgente PRG, abbiano di fatto mantenuto alla data di stesura del PAT caratteristiche di suolo agricolo (ad esempio larga parte delle aree verdi che con la Variante ai servizi del 2003 erano state rese edificabili con i meccanismi della “perequazione urbanistica”).
La risposta da parte dell’arch. Franco Fabris, Capo Settore Urbanistica, a questa nostra nuova richiesta di chiarimenti è risultata decisamente reticente ed evasiva. A giustificazione dell’errore commesso e del mancato chiarimento nel merito dei quesiti posti, l’arch. Fabris afferma che nell’ambito degli incontri organizzati da Agenda 21erano di fatto già «… stati ampiamente illustrati sia i contenuti che i criteri di progettazione del PAT». Il che è certamente vero (e infatti già a suo tempo avevamo contestato lo spropositato sovradimensionamento del fabbisogno abitativo della nostra città, volto a giustificare un incremento di oltre 4,6 milioni di mc di edilizia residenziale nel corso di un decennio), ma è altrettanto certo che in quest’ambito mai sono stati illustrati e discussi i criteri utilizzati per il censimento delle superfici agricole SAU e assimilate e per la determinazione del limite massimo alla loro trasformabilità.
Per quanto poi riguarda la nostra richiesta di procedere immediatamente alla revisione della cartografia e dei conteggi relativi al limite SAU, anche al fine di evitare l’adozione di piani attuativi in contrasto con le prescrizioni di legge, nella risposta del Capo Settore, rinviando detta revisione alla Conferenza istruttoria e decisoria di approvazione del PAT (una procedura che non prevede alcuna discussione pubblica delle controdeduzioni alle osservazioni presentate da cittadini e associazioni), si sostiene che «il PAT ha confermato le previsioni urbanistiche del PRG vigente» e che «… pertanto le stesse possono essere attuate in pendenza dello stesso PAT».
Nel merito a Fabris sembra sfuggire una evidente contraddizione: se andrà rivisto il dimensionamento del PAT e se dovrà essere drasticamente ridotta, in conformità con quanto stabilito dall’Atto di indirizzo regionale, la quantità di superficie agricola trasformabile, ne dovrebbe derivare anche la necessità di rivedere le previsioni urbanistiche del PRG vigente, nel quale si è previsto il cambio di destinazione d’uso di oltre 4 milioni di mq di terreni agricoli che , a quanto ci è dato capire, sono stati erroneamente classificati come “Superfici agricole residuali” (non soggette ad alcun vincolo di trasformazione d’uso), anziché come SAU.
Avendo il PAT adottato «confermato le previsioni urbanistiche del PRG vigente» sulla base di un errato presupposto (ovvero sulla base di un errato calcolo del limite imposto dalla legge alla trasformabilità dei suoli agricoli) e non essendo ancora stato istituito il previsto “Registro di controllo della SAU trasformata”, riteniamo quindi che si debba considerare illegittima l’adozione di piani attuativi (Iris, Basso Isonzo, via Pelosa, ecc.) che comportino il consumo di superfici agricole. Tanto più illegittima ci appare l’approvazione di Varianti urbanistiche, quale quella relativa a Mortise adottata dal Consiglio Comunale il 9 maggio scorso, che comportano un ulteriore incremento di detto consumo senza alcuna verifica del rispetto dei limiti di legge.

giugno 2011

Il piano paesaggistico del Veneto. Un passo avanti e due indietro?

Si è svolta nei giorni scorsi a Villa Widmann di Mira, organizzata dalla Regione Veneto e dal Ministero per i Beni Culturali, la 3.a Giornata di lavoro dedicata all’elaborazione del Piano Paesaggistico regionale, che dovrebbe integrare e fornire strumenti operativi all’Atlante ricognitivo degli ambiti di paesaggio allegato al Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) adottato nel febbraio del 2009.  Di fatto un incontro informativo sullo stato di avanzamento degli studi avviati nel luglio del 2009 con la sottoscrizione da parte di Regione e Ministero del Protocollo d’Intesa previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (DLgs 42/2004).
Protagoniste della “giornata di studio” sono state soprattutto la Direzione regionale del MiBAC e le Soprintendenze delle diverse province venete, che hanno relazionato sulle metodologie ed i criteri sin qui utilizzati per la costruzione di un quadro conoscitivo aggiornato, il censimento e la mappatura dei vincoli paesaggisti esistenti (decretati ai sensi della legge del 1939) e la ricognizione, delimitazione e rappresentazione delle categorie di beni di cui all’articolo 142 del Codice, da sottoporre a tutela per legge in virtù delle loro intrinseche qualità paesistiche (litorali, corsi d’acqua, parchi e riserve naturali, montagne, boschi, zone d’interesse archeologico, ecc.).
Un lavoro senza dubbio importante e meritorio, ma che affronta solo un aspetto – sia pure essenziale – del processo di elaborazione del piano. Va infatti ricordato che il Codice, così come la Convenzione Europea sul paesaggio, non solo richiedono l’eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree di notevole interesse pubblico (ad integrazione degli immobili e delle aree già censite) da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione, ma estendono altresì i criteri della pianificazione paesaggistica a tutto il territorio, alla gestione dei “paesaggi ordinari” ed alla riqualificazione e/o ricostruzione dei paesaggi compromessi o degradati.  In relazione ai diversi ambiti individuati sono poi richieste al piano paesaggistico l’attribuzione di adeguati obiettivi di qualità e la predisposizione di apposite prescrizioni cogenti (morfologie paesaggistiche, tipologie architettoniche, minor consumo di suolo, ecc.), di criteri operativi e prontuari, di specifici indirizzi e direttive per la pianificazione locale, di progetti di tutela e valorizzazione integrati per il miglioramento della qualità ambientale e per la creazione di occasioni di sviluppo culturale, economico e sociale, con particolare attenzione per la salvaguardia dei paesaggi rurali.
Su questi aspetti del piano, più direttamente coinvolgenti la Regione, poco o nulla si è detto nel corso della “giornata di lavoro”. Si è di fatto solo accennato ad alcuni progetti sperimentali elaborati in anni passati (Feltre e Laguna di Caorle in particolare), alle indicazioni fornite da alcune Soprintendenze per interventi riguardanti alcuni siti di particolare valore ambientale (Litorali del Cavallino e di Jesolo) e ad un “progetto pilota” che dovrebbe riguardare le aree della laguna veneziana e del delta del Po.  Un progetto dai tempi incerti che dovrebbe, con la successiva valutazione dei risultati conseguiti, consentire il passaggio dalla fase conoscitiva alla “fase prescrittiva”.
Sicuramente qualche passo in avanti si è fatto rispetto alla precedente “giornata di studio” organizzata più di un anno fa sempre a Mira. Ma nel complesso si è avuta l’impressione che più numerosi siano stati i passi indietro. All’incontro di un anno fa venne quantomeno presentato, da parte di un gruppo di consulenti dell’Università di Firenze, un articolato schema di lavoro per l’elaborazione del piano in tutti i suoi aspetti, uno schema che – tra l’altro – coglieva la complessità delle problematiche da affrontare e poneva l’accento sul ruolo essenziale della partecipazione , in tutte le fasi del processo di costruzione del piano, non solo degli enti istituzionalmente preposti, ma anche dei cittadini, del mondo dell’associazionismo e dei “portatori d’interesse” locali.
Di detto schema procedurale non sembra essere rimasta traccia. I tempi realizzativi sembrano essere sfumati verso un lontano futuro. Di “progetti pilota” per la gestione dei “paesaggi ordinari” e per la rigenerazione dei paesaggi degradati, che caratterizzano gran parte dell’arcipelago metropolitano veneto, non se ne è parlato. Ma soprattutto il “Piano paesaggistico” sembra destinato a non avere alcun carattere cogente. Più volte i rappresentanti della Regione hanno infatti voluto sottolineare come con questo piano non vi è alcuna intenzione di determinare una soluzione di continuità rispetto alla gestione del territorio dei decenni passati e che il piano non richiederà alcuna correzione del PTRC già adottato e dei piani territoriali ed urbanistici subordinati.
Intenzioni che appaiono in netto contrasto con quanto stabilito dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, là dove si afferma che “a far data dall’approvazione del piano le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici”(art. 143, comma 9). Intenzioni che nella sostanza contraddicono anche quanto evidenziato dalle più recenti sentenze della Corte Costituzionale, secondo le quali il paesaggio deve ritenersi “un valore primario ed assoluto”, che “precede e comunque costituisce un limite agli altri interessi pubblici” (sentenza n. 367 del 2007). Il che fa affermare a Salvatore Settis che “mentre è giusto cercare di superare la separatezza tra pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall’altro, ciò non può farsi invertendo la gerarchia dei valori costituzionali, e cioè facendo rientrare la tutela del paesaggio nell’ambito del governo del territorio”.  Un’inversione di valori che purtroppo appare essere ancora una volta il principio ispiratore della prassi pianificatoria della nostra Regione.

maggio 2011

Agricoltura urbana

Cresce a livello mondiale il costo degli alimenti e scarseggia il suolo coltivabile. Fenomeni non contingenti dovuti ad una molteplicità di fattori. Tra questi la costante crescita dei consumi generata dalla persistente crescita demografica (gli abitanti della Terra sono ormai giunti alla soglia dei 7 miliardi) e dall’aumento del grado di benessere e quindi dal cambiamento delle abitudini alimentari di una parte consistente delle popolazioni di quelli che un tempo definivamo come paesi sottosviluppati. Ed ancora la riconversione a fini energetici di molte colture, la desertificazione indotta dal generalizzato utilizzo di diserbanti e fertilizzanti chimici, l’introduzione degli OGM, l’intensificata frequenza dei disastri ambientali, la speculazione e lo spreco che caratterizzano le reti della grande distribuzione, ecc. Fattori che in diversa misura concorrono a far sì che i terreni fertili (una quota assai limitata della superficie terrestre) stiano diventando una delle risorse più preziose per la qualità della nostra vita e talvolta per la nostra stessa sopravvivenza.
Non solo nel Sud del Mondo, ma anche in Europa vi è dunque oggi una crescente attenzione per la riscoperta e la valorizzazione delle aree agricole urbane e periurbane sopravvissute all’alluvione edilizia degli ultimi decenni. In molte città del centro e del nord Europa l’autoproduzione alimentare e/o l’acquisto di prodotti alimentari “a chilometro zero” coprono una quota crescente dei consumi delle famiglie con indubbi vantaggi, sia di tipo economico sia ai fini della salute e del benessere, per produttori e consumatori (quelli che – associati nei gruppi di acquisto solidale – Carlo Petrini definisce come co-produttori). Un’attenzione che quasi sempre si associa alla riconversione in chiave biologica delle stesse tecniche di coltivazione, alla tutela della biodiversità, dell’ambiente e del paesaggio, alla costruzione di una rete di nuove economie locali in grado di restituire bellezza ed identità ai luoghi.
E’ questa una delle ragioni, anche se certo non l’unica, per cui la battaglia contro il consumo di suolo e per la salvaguardia e la valorizzazione dei terreni agricoli (in attività o anche temporaneamente abbandonati) dovrebbe divenire una delle strategie di fondo di ogni nuovo piano urbanistico e territoriale, tra le cui finalità vi dovrebbe essere quella di scoraggiare ogni attesa speculativa. L’integrazione tra reti ecologiche (spesso coincidenti con i principali bacini idrografici) ed aree destinate all’agricoltura può infatti contribuire in misura determinante alla riqualificazione funzionale e paesaggistica di ampi tratti della “città diffusa” caratterizzante molte regioni europee ed italiane.
Ma è realistico proporre un progetto di agricoltura urbana nello specifico dell’area metropolitana padovana? E quali sono state le trasformazioni e le tendenze che ne hanno caratterizzato negli anni passati e che ne caratterizzano attualmente lo sviluppo?
Un quadro sintetico di quanto l’espansione urbana abbia compromesso le attività agricole del territorio periurbano è ricavabile dalla lettura dei Censimenti Istat 1970, 1982, 1990 e 2000. Complessivamente in trent’anni nei 18 comuni della comunità metropolitana la Superficie Agricola Totale (SAT) delle aziende censite dall’Istat è diminuita in termini assoluti di ben 72 milioni di mq (il 25% della superficie agricola censita nel 1970), passando da 28.563 a 21.332 ettari. Considerando il solo territorio amministrato dal Comune di Padova la perdita di territorio agricolo è stata di circa 17 milioni di mq (pari al 41% della superficie agricola iniziale), passando da 4.338 a 2.552 ettari. L’aspetto più inquietante per quanto riguarda il Comune di Padova è che – diversamente da quanto avvenuto nei comuni della cintura – il maggior consumo di suolo agricolo, sia in termini assoluti che percentuali, si è registrato negli anni ’90, in un decennio in cui la popolazione è diminuita di oltre 10.000 abitanti. Negli anni ’90 nel Comune di Padova il consumo di suolo è risultato di oltre 1 milione di mq/anno, a fronte di un consumo medio complessivo di tutti gli altri 17 comuni dell’area metropolitana di “soli” 1,4 milioni di mq/anno (cfr. tabelle allegate).
Per Padova e provincia non sono ancora disponibili i dati relativi agli anni 2000, ma da un’indagine Istat del 2007 relativa al Veneto si evidenzia che il consumo di suolo agricolo a livello regionale, anziché diminuire, ha subito un’ulteriore impennata, passando dalla media di 9.752 ettari/anno del decennio precedente ad una media di 11.841 ettari/anno. Una tendenza più che preoccupante soprattutto alla luce del fatto che da molti anni la nuova legislazione urbanistica ed i nuovi piani urbanistici e territoriali si richiamano nelle loro premesse e negli indirizzi di fondo ai principi della sostenibilità ambientale e del recupero dell’esistente! Purtroppo tra le dichiarazioni di principio e le reali scelte di dimensionamento dei piani vi è quasi sempre una distanza abissale, giungendo persino ad interpretare creativamente le norme e ad “aggiustare” i conti delle relazioni tecniche per aggirare il limite massimo alla trasformabilità delle superfici agricole utilizzate (SAU) imposto dalla legge.
Eppure, nonostante il diluvio edilizio degli anni passati, se ve ne fosse la volontà politica, una inversione di tendenza ed un disegno organico di salvaguardia e riqualificazione del territorio agricolo periurbano sarebbe ancor oggi possibile. Un preciso punto di riferimento può a questo fine essere individuato nel Piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) adottato nel 1995 e poi, purtroppo, lasciato decadere. Un piano che – contrastando la dispersione urbana – descriveva una città metropolitana policentrica, articolata in un ridotto numero di nuclei insediativi esterni serviti dalla rete dei trasporti collettivi e caratterizzati dal decentramento di alcuni significativi servizi territoriali. La concentrazione dell’edificato in alcune polarità esterne avrebbe consentito la formazione attorno alla città centrale di un’estesa cintura verde di 8.900 ettari, costituita da aree agricole, ambiti naturalistici e spazi di verde attrezzato. Una green belt a salvaguardia degli spazi aperti, che potrebbe ridare forma agli insediamenti urbani, ridisegnandone i margini e penetrando al loro interno con raggi verdi e corridoi ecologici.
Certo per tradurre in realtà l’idea della cintura verde periurbana non è sufficiente disegnarla nelle cartografie di piano, ne è sufficiente porre più efficaci vincoli all’edificabilità delle aree. Occorre elaborare un progetto operativo condiviso da tutti i soggetti potenzialmente coinvolgibili: enti locali, associazioni di categoria, agricoltori ed operatori economici, consorzi di bonifica, associazioni ambientaliste e di volontariato, ecc. Gli esempi non mancano. Forse il più noto è quello avviato dalla Municipalità di Francoforte in Germania.
Risale al 1990 il progetto di GrünGürtel (cintura verde) di Francoforte, un sistema unitario di boschi, aree agricole e parchi urbani, per la cui attuazione venne costituita una apposita agenzia di carattere pubblico. Nel manifesto programmatico approvato dal Consiglio Comunale della città di Francoforte si afferma che «il  GrünGürtel è l’immagine di uno spazio libero e aperto in cui la società urbana riesce a realizzare se stessa… è luogo di vita e di sviluppo per piante e animali, anche, in particolare, per quelli più rari o minacciati di estinzione. Uno dei suoi compiti principali è la tutela e l’attento sviluppo dei caratteri del paesaggio culturale, costituito da fattori ambientali naturali e dagli effetti della gestione storica del territorio. La cintura verde è collegata ai quartieri del centro urbano tramite collegamenti verdi radiali e circolari; come completamento della cintura verde, essi provvedono alla sua sicura raggiungibilità dal nucleo cittadino e al collegamento in rete dei biotopi. Verso l’esterno corridoi verdi collegano il GrünGürtel con le aree inedificate della regione…».
Concetti non dissimili caratterizzano il progetto di Gren Belt elaborato in anni più recenti dalla città di Torino ed il progetto di parchi urbani e rurali predisposto dalla città di Ferrara. Ma l’esperienza forse più significativa in Italia è quella del Parco Agricolo Sud della provincia di Milano.
Il parco agricolo, che avvolge la periferia sud della città di Milano, venne istituito con apposita legge regionale del 1990 e comprende attualmente un territorio di circa 47.000 ettari (il 50% del territorio metropolitano) di cui 35.000 coltivati. Nel suo ambito vi sono 910 cascine ed operano oltre 4.000 addetti. Le attività agro-silvo-colturali sono assunte come elemento centrale e connettivo per la vita del parco, tra i cui obiettivi vi sono però anche: lo sviluppo della multifunzionalità economica (produzioni tipiche, biodiversità vegetale e animale, agricoltura biologica, agriturismo, ecc.); la formazione di filiere corte per la commercializzazione dei prodotti; la riqualificazione ambientale e del sistema delle acque; la valorizzazione del sistema delle cascine e dei nuclei storici; la fruizione pubblica e le reti della mobilità lenta; la certificazione dei prodotti e gli incentivi economici; la partecipazione e la costruzione di una nuova immagine ed identità comunitaria. In vista dell’Expò 2015, dedicato al tema “Nutrire il pianeta, energie per la vita”, l’associazione Slow Food di Carlo Petrini in collaborazione con il Politecnico di Milano ha inoltre da tempo avviato un programma di potenziamento delle attività del Parco, finalizzato in particolare a trasformare l’agricoltura secondo criteri di sostenibilità ed innovazione, all’utilizzo di risorse energetiche rinnovabili, alla costruzione di nuove filiere alimentari con l’istituzione di un Mercato della Terra settimanale alla periferia di Milano, alla creazione di appositi fondi finanziari per favorire l’ingresso dei giovani in agricoltura ed alla promozione di pratiche educative permanenti.
Per le ragioni esposte, seguendo il positivo esempio delle esperienze di pianificazione urbana e territoriale di numerose altre città europee ed italiane, considerato anche il fatto che nell’area metropolitana di Padova esistono ancora oltre 21.000 ettari di territorio agricolo (il 57% della superficie territoriale complessiva), riteniamo che, per garantire uno sviluppo realmente sostenibile alla città di Padova, sia assolutamente necessario ed urgente l’elaborazione di un progetto di salvaguardia e valorizzazione (economica e paesaggistica) del territorio agricolo urbano e periurbano. Un progetto che deve essere esteso alla scala metropolitana essendo inimmaginabile che venga frammentato nei PAT dei singoli comuni. Un primo passo in questa direzione  non può quindi che essere costituito dall’integrazione dei tematismi relativi all’agricoltura ed al paesaggio agrario nel PATI intercomunale recentemente adottato. In pendenza di detta integrazione si deve richiedere ai Comuni di non approvare alcuna variazione di destinazione d’uso dei terreni agricoli per non compromettere la possibilità di elaborare un organico progetto unitario.
aprile 2011

Il PAT di Padova e la distruzione dei suoli agricoli

Legambiente Padova ha recentemente segnalato all’Assessorato all’Urbanistica di Padova l’errore commesso nel dimensionamento del Piano di Assetto Territoriale (PAT) adottato il 7 aprile 2009. I calcoli effettuati per la determinazione del limite massimo alla trasformabilità delle superfici agricole utilizzate (SAU) in zone con destinazioni diverse non tenevano infatti conto dei criteri fissati dall’Atto di Indirizzo della Regione Veneto del 25 novembre 2008. Era stata utilizzata a base del calcolo l’intera superficie territoriale comunale e non la sola SAU. Un errore che comporterebbe per il prossimo decennio un consumo di suolo agricolo utilizzato di 667.994 mq anziché di 181.142 mq, quasi mezzo milione di mq in più rispetto a quanto consentito dalla legge.

La replica pervenuta dal Settore Pianificazione Urbanistica del Comune, pur riconoscendo l’errore, rinvia le correzioni alla redazione del primo Piano degli Interventi (PI).
Ma l’aspetto più preoccupante della risposta sta nel punto successivo, dove si osserva che la “DGR 3650 del 2008 non ha modificato solo il riferimento alla superficie del territorio comunale, da utilizzare nel calcolo della SAU, ma anche l’elenco delle aree e delle colture da considerare ai fini della quantificazione della stessa, e pertanto la verifica va fatta in modo complessivo”.

Un’osservazione che ci fa richiedere alcuni urgenti chiarimenti in relazione alle seguenti questioni:

1.- L’Atto di indirizzo regionale richiede che nel calcolo della SAU vengano computate anche quelle che vengono definite come aree agricole “assimilate alla SAU” (arboricoltura da legno e terreni abbandonati), aree ricomprese nei censimenti Istat nella superficie agricola aziendale totale (SAT), ma non nella SAU. Non è una differenza da poco, soprattutto in un contesto in cui le attese speculative, alimentate dalle frequenti varianti di piano, inducono all’abbandono di molti terreni agricoli. Ed è una differenza che potrebbe dover richiedere un radicale ridimensionamento delle previsioni del PAT relative alle aree agricole trasformabili in aree edificabili (nel PAT vengono infatti censite oltre 4 milioni di “superfici agricole residue” per le quali non si pone alcun limite di trasformazione d’uso).

2.- Nella risposta del Comune si rinvia il ricalcolo della SAU trasformabile al momento in cui verrà redatto il primo Piano degli Interventi. Nel frattempo, però, è all’ordine del giorno una Variante di PRG con cui a Mortise si prevede l’urbanizzazione di ulteriori 106.000 mq di terreni agricoli.

3.- L’Atto di Indirizzo regionale richiede che nel computo della SAU si consideri l’uso effettivo del suolo “a prescindere dalle destinazioni e classificazioni di PRG”. Ciò implica, ad esempio, che tra le aree SAU vada compresa larga parte degli oltre 4 milioni di mq di aree che alcuni anni fa con apposita Variante di PRG vennero destinate a “perequazione urbanistica” (Iris, Basso Isonzo, via Pelosa, Terranegra, ecc.). Se dette aree rientrano nel computo della SAU, se ne dovrebbe dedurre che anche ad esse debba essere applicato il limite di trasformabilità dello 0,65% e che quindi – determinato detto limite – si debba procedere ad una rivisitazione dello stesso PRG vigente prima della sua riconversione in Piano degli Interventi (ricordiamo infatti che a norma di legge il PRG vigente, con l’approvazione del primo PAT, diventa “per le parti compatibili” il Piano degli Interventi). La necessità di rivedere le previsioni del PRG vigente appare peraltro coerente con gli indirizzi del Provvedimento regionale che consente “la ricollocazione, all’interno del territorio comunale, delle aree interessate da precedenti previsioni di piano non attuate, nonché di quelle che, ancorché adottate, siano incompatibili con il PAT”.
Se detta interpretazione venisse confermata risulterebbe illegittima la norma del PAT di Padova con cui si stabilisce che il limite massimo alla trasformabilità delle aree SAU si applica solo alle nuove espansioni urbane che troveranno attuazione con il Piano degli Interventi.

4.- Il PAT di Padova risulta solo adottato e non ancora definitivamente approvato, ma con la sua adozione sono divenute operative le misure di salvaguardia. Riteniamo dunque che già in questa fase sia vigente l’obbligo di verificare il non superamento del limite alla trasformabilità dei suoli agricoli ogni qual volta si proceda all’autorizzazione di nuovi piani urbanistici attuativi che interessino aree SAU o assimilate SAU. Da qui l’urgenza di procedere da subito al ricalcolo di detto limite ed alla istituzione del previsto “Registro di controllo della SAU trasformata”, anche al fine di evitare che i permessi rilasciati possano essere dichiarati illegittimi.

Legambiente dunque, al fine di prevenire nuove cementificazioni, chiede che vengano esplicitati i criteri utilizzati per il dimensionamento del PAT nel censimento delle SAU e che la cartografia ed i calcoli relativi alla SAU vengano rivisti prima dell’approvazione definitiva del PAT, non rinviando detta verifica all’adozione del primo Piano degli Interventi. L’Atto di indirizzo regionale precisa infatti essere “fondamentale” che l’indicazione del limite quantitativo massimo sia contenuta nel PAT. Si richiede inoltre che venga immediatamente effettuata la verifica di compatibilità del PRG vigente rispetto al limite massimo di aree SAU trasformabili e che venga istituito l’apposito Registro di controllo.
marzo 2011

Non c’è più terra!

Su Il Gazzettino di ieri, in risposta alla contestazione del fatto che nel PAT di Padova si è erroneamente elevato di quasi mezzo milione di mq (da 181mila a 667mila) il limite imposto dalla Legge urbanistica regionale alla trasformabilità delle superfici agricole in zone edificabili, l’ex Assessore Mariani afferma che Legambiente farebbe riferimento a “criteri regionali modificati” e che la Regione avrebbe detto “che per chi aveva già fatto il piano andavano bene anche i vecchi”. Nel merito di questa e delle altre affermazioni di Mariani mi sia consentito osservare quanto segue:
Il PAT di Padova è stato adottato dal Consiglio Comunale in data 7 aprile 2009 e quindi dopo la pubblicazione dell’Atto di indirizzo regionale che fissa i criteri di calcolo per stabilire il limite massimo alla trasformabilità delle aree agricole (DGR del 25 novembre 2008).
Non è vero che la Variante del 2004 ha ridotto le volumetrie rispetto al previgente PRG, anzi le ha aumentate di circa 2,5 milioni… probabilmente Mariani si confronta non con il PRG vigente bensì con la Variante Riccoboni (di cui ha leggermente ridotto gli indici) che però non era ancora stata definitivamente approvata dalla Regione e che nel suo programma elettorale Zanonato si era impegnato a revocare!
Il nuovo PAT aumenta ulteriormente le volumetrie residenziali di circa 2 milioni di mc (e non, come indicato nell’articolo, di soli 800 mila mc).
Non è vero che l’occupazione di aree agricole è finalizzata esclusivamente all’edilizia sociale. Anzi! Nelle aree di perequazione la parte del leone la fa l’edilizia privata, senza alcuna convenzione sul prezzo di vendita degli alloggi (presumibilmente alto, in quanto verranno venduti come “villette nel verde”). Nel caso della perequazione integrata si prevede solo che alcune aree (spesso quelle più marginali) siano cedute al comune per eventuali futuri interventi di edilizia pubblica, ma mancano i finanziamenti per effettuare gli interventi!
Quando mai Legambiente ha affermato che vanno bene i centri commerciali o la cementificazione nei comuni limitrofi?  Anzi ci siamo sempre battuti per un coordinamento delle politiche abitative tra i 18 Comuni dell’area metropolitana ed abbiamo fortemente criticato il fatto che il tema della casa (così come quello dell’agricoltura e quindi del consumo di suolo agricolo) non sia stato inserito negli studi del PATI. La conseguenza è che ora ognuno dei 18 comuni sostiene, con argomentazioni diverse, che è meglio costruire nel proprio territorio sovradimensionando le previsioni insediative nell’ambito del proprio PAT.
Quando Mariani afferma che le nuove lottizzazioni riguardano solo “aree di riconversione” confonde i termini, sembra infatti di comprendere che tra queste lui voglia includere le aree agricole attualmente non utilizzate o “abbandonate”… ma una seria politica comunale dovrebbe proprio proporsi di contrastare l’abbandono delle aree agricole e non di incentivare i meccanismi di attesa speculativa sulle aree estendendo ogni cinque anni il perimetro delle urbanizzazioni.
Nell’ultima Commissione urbanistica la Giunta ha richiesto un’ulteriore estensione delle aree di perequazione a Mortise (circa 106.000 mq) su terreni agricoli, concedendo nuove volumetrie edificabili ai privati per ottenerne in cambio “gratuitamente” un’area su cui ampliare un polo scolastico, della cui realizzazione peraltro non vi è certezza.
febbraio 2011

Il consumo di suolo agricolo : Un vistoso errore nel dimensionamento del PAT

Abbiamo chiesto chiarimenti al Settore comunale competente, ma, non avendo ancora ricevuta risposta, rendiamo pubbliche le nostre osservazioni e la nostra richiesta di precisazioni nel merito.
Potremmo sbagliarci, ma a nostro giudizio qualcosa non torna nei conti del Piano di Assetto del Territorio (PAT) di Padova adottato dal Consiglio Comunale il 7 aprile 2009.  Com’è noto, la legge urbanistica regionale del 2004, prendendo atto dei gravi danni provocati al paesaggio, al sistema idrogeologico ed alla stessa economia della nostra regione dalla abnorme distruzione di suolo agricolo dei decenni scorsi, ha stabilito per il dimensionamento dei nuovi PAT un limite massimo alla trasformabilità delle superfici agricole utilizzate (SAU) in zone con destinazioni diverse da quelle agricole. Detto limite è stato esattamente quantificato, in relazione alle diverse caratteristiche dei comuni veneti, con apposita delibera della Giunta Regionale (allegato A della DGR n. 3150 del 25 novembre 2008): il limite massimo stabilito per il Comune di Padova corrisponde allo 0,65% della SAU.
Tradotto in cifre, se – come afferma il PAT di Padova – l’attuale superficie agricola utilizzata nel territorio comunale è pari a 27.867.993 mq, la quantità di SAU sacrificabile alle nuove urbanizzazioni non dovrebbe superare i 181.142 mq.  Nella Relazione e nelle norme tecniche del PAT detto limite viene invece elevato a 667.944 mq, quasi mezzo milione di mq in più che – a quanto ci è dato capire – sembrano derivare da un errore di calcolo: nelle tabelle allegate al PAT scopriamo infatti che la percentuale dello 0,65% è stata applicata, anziché alla sola SAU, all’intera superficie territoriale del Comune (pari a mq 93.418.780), incrementando peraltro il valore così ottenuto di un ulteriore 10% (incremento consentito dalla legge, ma solo sulla base di adeguata motivazione).
Questo sovradimensionamento delle aree di espansione urbana ci sembra tanto più grave se consideriamo i seguenti aspetti:
La rapida crescita a livello mondiale della domanda di prodotti agricoli, utilizzati sia a fini alimentari che energetici, fa sì che l’agricoltura stia tornando ad essere un settore strategico dello sviluppo e del benessere economico di ogni nazione. La salvaguardia e la valorizzazione degli stessi terreni ancora utilizzati a fini agricoli in ambito periurbano sono oggi uno degli obiettivi strategici di ogni strumento di pianificazione urbanistica che voglia richiamarsi alla sostenibilità ambientale.
I dati forniti dai censimenti generali dell’agricoltura (l’ultimo risale all’anno 2000) documentano impietosamente l’enorme, in larga misura ingiustificato consumo di terreno agricolo avvenuto nel nostro comune. Dal 1970 al 2000 la superficie agricola utilizzata (SAU) si è ridotta del 44% e costituisce attualmente non più del 24% della superficie territoriale comunale. Un vertiginoso balzo nella cementificazione del nostro territorio si è avuto soprattutto negli anni ’90, quando il consumo di suolo agricolo è salito da una media di 108.000 mq/anno a ben 879.000 mq/anno: anni nei quali la popolazione anziché aumentare è diminuita di oltre 10.000 unità.
Una consistente parte di superficie agraria non è censita come SAU, in quanto complementare alle coltivazioni (boschi, cedui, strade poderali, edilizia rurale e agriturismo, ecc.). Purtroppo la legge regionale non pone un limite all’urbanizzazione di questo territorio, che invece potrebbe essere importante per le costruzione delle reti ecologiche e per potenziare le stesse attività agricole. Il PAT di Padova prevede di utilizzarlo totalmente a fini edificatori: ai 667.944 mq di cui sopra si aggiungono dunque ulteriori 4 milioni circa di mq, destinati alla costruzione di quasi 4,7 milioni di mc di nuova edilizia residenziale (per una irrealistica previsione di un aumento della popolazione residente di circa 24.000 abitanti).

Se la nostra lettura delle norme di legge verrà confermata dagli uffici competenti, riteniamo quanto mai urgente una correzione delle previsioni e del dimensionamento del PAT e si richiede che nel contempo non vengano adottate varianti al PRG vigente che comportino ulteriore consumo di suolo agricolo.

febbraio 2011

Il Convegno su Prato della Valle

Caro Sindaco,

mi siano consentite alcune osservazioni nel merito del tuo intervento trasmesso al Convegno di sabato scorso.

Un’eredità della Giunta Destro.

Va senza dubbio riconosciuto alla tua Amministrazione il merito di aver sospeso, nel giugno del 2004, la procedura di project financing avviata dalla precedente Giunta Destro per la realizzazione dell’autosilo di piazza Rabin e di aver conferito, un anno più tardi, un incarico all’architetto Sergio Crotti per verificare l’utilità del parcheggio interrato nell’ambito di uno “studio-progetto” che affrontasse tutte le problematiche del “sistema Prato della Valle”.
I risultati dello studio-progetto sono stati purtroppo alquanto deludenti, ma oggi il problema vero è che, viste le motivazioni con cui la Soprintendenza ai Beni Architettonici ha bocciato il 9 luglio scorso il progetto presentato dal Concessionario affidatario del project financing, il Piano Crotti non può di fatto essere più considerato quale scenario strategico entro cui inquadrare e giustificare gli interventi previsti. Se infatti la Soprintendenza ha giudicato non ammissibile la chiusura con vetrate delle due logge laterali del Frontone, in quanto si determinerebbe una “quinta di separazione” fra lo spazio di Prato della Valle e lo spazio funzionale del Foro, appare del tutto improbabile che la stessa Soprintendenza possa in futuro approvare le restanti previsioni del Piano Crotti, che ben più impattanti quinte e diaframmi prevede alla spalle del Frontone e all’interno dello spazio del Foro.
Da qui deriva la richiesta, avanzata da Legambiente e dalle altre associazioni promotrici del Convegno di sabato scorso, che il Comune di Padova, prendendo atto delle ragioni di fondo del parere della Soprintendenza, abbia il coraggio – come già avvenne nel 2004 –  di sospendere l’iter procedurale del project financing e di riaprire il dibattito ed il confronto culturale sul futuro di tutto il sistema di Prato della Valle, coinvolgendo in tale dibattito il Consiglio Comunale (che ha avuto occasione di discuterne solo nella seduta del 22 aprile 2009), le Soprintendenze ai Beni Architettonici ed Archeologica ed in generale i cittadini ed il mondo della  cultura e dell’associazionismo.

Cosa fare, nel frattempo, per combattere il degrado

Nel tuo intervento affermi che data la scarsità di risorse del Comune, se si vuole evitare il degrado, non vi è alternativa all’intervento privato. Se però si esamina il progetto definitivo presentato dal Concessionario e se si analizzano i termini della relativa Convenzione sottoscritta con il Comune, è francamente difficile comprendere quale sia l’effettivo interesse pubblico e quale contributo le opere previste possano apportare alla riqualificazione dell’area.
Il progetto prevede la conferma (o meglio la definitiva sistemazione) del parcheggio delle corriere e dei camper in piazza Rabin (4.299 mq), una squallida copertura in asfalto – interrotta dalle numerose griglie di aerazione – del parcheggio interrato (9.088 mq) ed il mantenimento del manto di asfalto anche nella “restante parte” di piazza Rabin (12.148 mq), che – leggendo la Convenzione – non si esclude possa in futuro essere ancora utilizzata come parcheggio auto, in occasione di particolari eventi o manifestazioni. Il Frontone viene sì restaurato e ristrutturato, ma tutto in funzione dell’uso commerciale che ne vorrà fare il privato (2.041 mq di superficie commerciale e 526 mq di magazzini). Al Comune verrà solo concesso l’uso gratuito per 50 giorni l’anno della sala polivalente di 220 mq al secondo piano, in date “da programmare con adeguato anticipo”.
Esistono alternative concrete a tale progetto che, anche in relazione alle limitate disponibilità del bilancio comunale, possano da subito contrastare il degrado a cui quest’area – mentre si discuteva di grandi opere e di project financing – da almeno un decennio è stata condannata?
Pensiamo di si. Un primo provvedimento dovrebbe riguardare l’eliminazione del parcheggio destinato ai pullman turistici ed ai camper, la cui sosta potrebbe essere dirottata senza molte difficoltà verso i parcheggi scambiatori esterni alla città. In quest’area – almeno temporaneamente, in attesa di un ulteriore potenziamento del trasporto pubblico – potrebbe essere spostato il parcheggio delle auto, avendo presente che gli attuali 470 posti – fatta eccezione per il sabato – risultano utilizzati solo per il 55 – 60% delle potenzialità (in larga misura da abbonati che poi utilizzano il bus-pollicino per recarsi in centro) e che il parcheggio attuale – dovendo conformarsi ai filari di alberi esistenti – spreca un’enorme quantità di spazio in rapporto al numero delle auto posteggiate. Se necessitassero altri spazi, si può immaginare di ricavarli nell’area all’angolo tra via Marghera e via 58° Fanteria, attualmente utilizzata dall’Acegas-APS.  Gran parte di Piazza Rabin potrebbe così in tempi rapidi essere riconvertita in un attraente spazio a verde attrezzato per l’incontro e la sosta di cittadini e turisti.
Un secondo provvedimento dovrebbe essere quello relativo all’abbattimento delle gradinate dello Stadio Appiani (già nel programma triennale delle opere pubbliche) ed alla riapertura del canale Alicorno, con la progressiva trasformazione di via 58° Fanteria in un viale alberato di collegamento tra il Parco delle Mura e Prato della Valle.
Per quanto concerne poi il restauro del Frontone, si può forse programmare un intervento di minor impatto architettonico ed economico, che non escluda l’intervento del privato, ma con una preventiva attenta individuazione delle attività commerciali o di ristoro effettivamente utili per riqualificare e rendere più vitale lo spazio di piazza Rabin e con la riserva di un congruo spazio destinato a servizi di interesse pubblico.

Sono solo alcuni suggerimenti di opere che, senza recar pregiudizio a futuri progetti di più ampio respiro che potranno essere attuati quando se ne individueranno le possibili fonti di finanziamento, risultano realizzabili a breve e con immediato beneficio per la città.

Un cordiale saluto,      Sergio Lironi – Presidente onorario di Legambiente

Padova, 29 novembre 2010